ASACOM e formazione: basta un corso o serve di più?




Negli ultimi anni si è parlato molto della figura dell’ASACOM (Assistente all’Autonomia e alla Comunicazione)👈, sempre più presente nella quotidianità scolastica di molti bambini e ragazzi con disabilità.
È una figura preziosa, che affianca l’alunno nella vita scolastica, lo aiuta nei momenti di difficoltà e rappresenta un punto di riferimento importante per il suo benessere.

Ma di fronte alla crescente complessità dei bisogni educativi, il nostro sistema forma davvero in modo adeguato chi svolge ruoli così delicati?

Una riflessione che non vuole puntare il dito

Partiamo da un presupposto chiaro: questa riflessione non vuole mettere in discussione il valore delle persone. Ho conosciuto ASACOM straordinari, con un diploma e tanta esperienza sul campo, che si aggiornano con passione e che hanno un’empatia rara.

Al tempo stesso, conosco educatori e laureati in Scienze dell’Educazione che si sentono scavalcati da percorsi formativi più brevi e meno strutturati, pur avendo investito anni nello studio e nella formazione professionale.

Diversi percorsi, stessi compiti?

Un ASACOM può accedere al lavoro con un diploma di scuola superiore e un corso professionalizzante di qualche centinaio di ore.
Un educatore professionale o pedagogista, invece, affronta un percorso universitario triennale o magistrale, con esami di:

  • pedagogia generale, speciale e interculturale,

  • psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento,

  • metodologia della progettazione educativa,

  • etica e deontologia professionale.

I percorsi sono diversi, ma spesso nella pratica ci si ritrova ad affrontare compiti simili, come:

  • supporto nella relazione educativa,

  • mediazione con la famiglia,

  • osservazione del comportamento,

  • costruzione di strategie per l’autonomia.

E allora nasce la domanda: le istituzioni stanno facendo abbastanza per valorizzare le competenze educative?
O, al contrario, si punta su percorsi più brevi e meno onerosi per motivi puramente economici?

Non è (solo) una questione di titoli

Non si tratta di dire chi è “meglio” o “peggio”. L’empatia, la pazienza, la capacità di ascolto non si misurano con un titolo di studio. Ma la complessità educativa richiede strumenti che si apprendono anche attraverso la teoria, lo studio, il confronto accademico.

Chi lavora con fragilità importanti ha bisogno di sapere cosa sta facendo, di avere una cassetta degli attrezzi pedagogica solida, aggiornata, fondata su basi teoriche e scientifiche.
La buona volontà è fondamentale, ma non può essere l’unico requisito.

Una questione sistemica

Il vero problema non sono le persone. Il problema è un sistema che:

  • forma in fretta e poi abbandona,

  • crea sovrapposizioni e confusione tra figure professionali,

  • non valorizza il sapere pedagogico,

  • investe poco nella formazione continua.

E a pagarne il prezzo, spesso, sono proprio gli alunni più fragili, che meriterebbero una rete educativa strutturata, formata, competente.

In conclusione: serve una visione più chiara e coraggiosa

Non dobbiamo dividerci tra chi ha un diploma e chi una laurea. La vera sfida è costruire una scuola in cui ogni figura educativa sia formata in modo serio, riconosciuta nel proprio ruolo e valorizzata per ciò che porta.

Serve una visione politica e culturale che non risparmi sulla qualità educativa, perché educare non è un compito secondario: è una responsabilità enorme.

E tu, cosa ne pensi?

Hai mai lavorato con figure come l’ASACOM o l’educatore scolastico?
Hai vissuto in prima persona questa distinzione tra percorsi formativi diversi?
Credi che oggi il sistema garantisca una preparazione adeguata a chi lavora accanto agli alunni più fragili?

👇 Scrivilo nei commenti!
Il confronto arricchisce tutti, soprattutto quando si parla di educazione. Raccontare le proprie esperienze può aiutare a far luce su un tema spesso poco discusso, ma fondamentale per il futuro della scuola.

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Prof. Giuliana

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